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Su un certo campo da tennis

 

Questo è il racconto che ho scritto per “Mamma che Impresa!” dedicato a Prenota Un Campo, iniziativa imprenditoriale di un gruppi di giovani milanesi, giustamente “premiata” per attivismo e creatività innovativa. Ritrovarsi a Milano, la settimana scorsa, per la presentazione del libro dedicato – “Storie di impresa (av)vincenti” – è stata bellissimo, così come aver fatto parte di un gruppo così volto al positivo. Buona lettura.

 

«Gino, ma ti ricordi quando dovevamo diventare matti per affittare un campo di calcio? Per esempio, all’oratorio: era sempre occupato da quelli che portavano il pallone di cuoio, così ci giocava anche il Don Gabriele che non gli piaceva il Santos di plastica. Lui era un prete po’ snob, anche un antesignano nello smettere la tonaca e infilarsi i pantaloni, che nel caso diventavano pantaloncini da partita e con lui, quelli continuavano fino ai vespri della sera e il nostro turno non arrivava mai…»

«Certo che me lo ricordo, Franchino, anzi: della prima volta che ci siamo andati ho anche immagini nitide, da batticuore. Ci siamo arrivati talmente in tanti che potevamo già farci due squadre al momento della prenotazione. Ma per poterlo affittare con regolarità abbiamo dovuto aspettare che passasse il periodo della dipendenza, cioè quando i genitori ci davano qualche soldo e facevamo la colletta. Ti ricordi? Capitava sotto Natale o Pasqua, al compleanno o magari se venivamo promossi, che almeno nel mio caso non era scontato. Poi costava un casino, per le nostre tasche di allora. Vabbé, ma adesso cosa c’entra? Hai nostalgia dei tempi andati? Guarda che così si diventa vecchi…»

«Ma va là. Siamo ancora nel pieno… Ma aspetta che ti racconto, poi te lo dico.»

Il Gino e il Franchino, vicini ai cinquanta, sono meneghini e amici (si può dire) da sempre. All’aperto dei tavolini del Bar Basso, in zona Città Studi, si ritrovano almeno un paio di volte alla settimana, finito il lavoro, per prendere insieme l’aperitivo, e la recita è sempre quella, e comprende qualche chiacchiera sull’attualità, l’ultima partita da schifo dell’Inter, un paio di sigarette consumate all’unisono e poi si parte: Negroni classico per il Gino, sbagliato per il Franchino, ché la variazione in questione l’hanno inventata proprio lì, e allora dove lo vuoi prendere? Per fortuna, tutti e due il lavoro ce l’hanno vicino, così – dopo un periodo di distanza forzata – si può dire che non hanno smesso praticamente mai di frequentarsi, proprio da quei tempi dell’oratorio e della scuola: hanno fatto insieme elementari e medie, poi separati ma mai del tutto: uno il classico al Berchet e l’altro (il Franchino, naturalmente) allo Zappa, istituto per ragionieri.

«È che ‘sta cosa me l’ha fatta venire in mente mio nipote Davide, e se aspetti ti spiego. Comunque, era davvero un casino affittarlo quel campo. Per non parlare di quelli da tennis. Succedeva sempre che quella carogna del custode, anche se arrivavi alle sette di mattina del lunedì, aveva già occupato tutti gli orari buoni per i suoi amici, da lì alla domenica notte. Secondo me prendeva la cagnotta per mettere il loro cognome sul registro fin dalle prime luci dell’alba. Così a noi, ma solo se andava bene, ci toccavano gli orari impossibili, tipo le sette di mattina o le otto di sera; se era estate ancora ancora, invece d’inverno la luce andava via presto, e l’unico campo coperto e illuminato costava di più, e comunque era sempre prenotato.»

«Però, c’è un però – si inserisce il Franchino – e se la memoria non ti è andata del tutto in pappa, ti ricordi anche qual è.»

«No che non me lo ricordo. Dimmelo tu.»

«L’Antonella.»

«Cioè? ».

«Fai lo gnorri, ma guarda che con me non attacca. Noi andavamo comunque sempre prima e non ci dispiaceva per niente, quando sapevamo che in campo con la racchetta c’era l’Antonella. Ci mettevamo già tutti belli con la Lacoste immacolata e i pantaloncini bianchi seduti sulla panchina vicina alla rete e fingevamo un’attenzione del tutto sportiva. Sembrava che seguissimo la pallina, e invece non smettevamo di guardarle le gambe. Quando mai ne avevamo viste un paio così, e scoperte, prima di allora, se non nei film di Bond o d’estate al mare, quando ci andavamo? Mi ricordo che contavamo le volte che si riusciva a sbirciare sotto la gonna, quando tirava uno dei suoi colpacci, perché era anche brava oltre che bella. Una volta siamo arrivati a 21, che poi è stato il record imbattuto.»

«Certo, e ricordo anche che ci hai messo un casino per attaccarci bottone. E che poi l’abbiamo convinta a giocare insieme. Solo che a me per il doppio è capitata quella che era la sua compagna nel singolo. Ti ricordi anche lei? Se non sbaglio si chiamava Elena, non era mica bella come l’Antonella. E come ciliegina sulla torta, la volta che ci siamo usciti insieme per andare in discoteca, te hai fatto venire con noi anche il Belotti, e sappiamo com’è finita: si sono messi insieme. Sei sempre stato un fenomeno! Visto che la Elena ti piaceva, adesso dimmelo: quanto ci puoi aver messo a digerirlo, ‘sto scorno, eh?» E giù a ridere.

«Ha dimostrato che era scema, se si è messa con quell’ebete. A proposito, sai che fine ha fatto il Belotti? Saranno vent’anni che non lo vedo…»

«Non ne ho la più pallida idea, e nemmeno lo voglio sapere. Se c’era qualcuno che non mi stava simpatico, quello era lui.»

La Milano vista da quel punto di osservazione, e poi in primavera, è splendida. Ci passa un sacco di bella gente, le macchine sono vicine ma scivolano via in maniera quasi sommessa che è un piacere, e lo fanno quasi come per non disturbare una funzione sacra recitata in uno dei santuari d’eccellenza destinati all’uopo. Sì, perché quando l’aperitivo glielo servono in enormi coppe di vetro e affogato in una cascata di cubetti di ghiaccio, per il Gino e il Franchino è una gioia anche solo starlo a guardare. E la tirano in lungo, per rimandare il rientro a casa, ché poi, dopo, tutto si svolge sempre uguale, fra tg, talk show serali e menate familiari. Invece, quei momenti è come se facessero parte di un rito antico da mantenere assolutamente tale, e quindi ogni volta è una sorpresa che deve rinnovarsi nello stesso modo e con poche eccezioni, come qualcuno che non si aspettano, che passa da quelle parti, li vede, attacca bottone e ci mette mezz’ora prima di capire che è il caso di mollare il colpo e lasciarli tranquilli.

A riprendere il discorso ci pensa il Franchino, dopo che nel sorseggiare si sono esauriti tutti i classici discorsi possibili, che comunque – in un modo o nell’altro – dovevano essere espletati:

«Dai, cosa c’entra il Davide con l’Antonella e via di questo passo?»

«Te lo dico subito. Allora, il nipote, l’altra sera a cena da mia sorella, mi fa: Zione, ma tu non eri bravo a giocare a tennis? Perché non ci affittiamo un campo e facciamo palleggi e partita per un paio d’ore? Mi sono sentito male, ché non gioco più da almeno cinque anni, e forse sono anche il doppio, ma mica potevo buttare la spugna così, e ci ho detto di sì, ma a patto che i palleggi durino a lungo. E lui: Ma certo, quanto vuoi. E se poi va bene e non ne esci a pezzi, possiamo farlo ancora magari qualche altra volta. Sarò buono, dai: prometto che non infierisco, e l’infame si è pure messo a ridere. Così, ti volevo dire: perché prima non facciamo qualche oretta noi, io e te, e dopo mi presento all’appuntamento con il giovane non del tutto impreparato? In fondo, dovremmo farcela, no? Magari solo un’ora alla settimana, per un po’. Tanto io con lui ho un po’ rimandato nel tempo, trovando la scusa degli impegni di lavoro. Cosa dici? Magari ci fa pure bene…»

Il Franchino ci pensa un po’, poi:

«Ma pensa te, giocare a tennis come allora, noi due. Ma sì, si può fare. Una cosa nuova, ma antica. Perché no? Io però, tempo per andare a prenotare non ne ho”.

«Per questo non c’è problema. Anch’io ho detto la stessa cosa al Davide, pensando che adesso al limite si può fare per telefono, invece che andare al campo, e lui si è messo a ridere. Zio, mi fa, ma cosa dici? Adesso non si va più sul posto a mettere un cognome e a pagare in contanti. Ci sono le app… Non ho detto niente, che ogni movimento dei muscoli facciali poteva equivalere a una grossa presa per i fondelli da parte sua nei miei confronti, e l’ho lasciato andare avanti. Così mi ha spiegato che esiste un sito dove la cosa si può fare online tramite computer, cellulare e via dicendo. Si chiama prenotauncampo.it, e non è solo per il tennis, ma anche per il calcio, il calcetto, il volley e almeno altri venti sport, passando per le bocce e arrivando persino a una roba che si chiama padel, che nemmeno sapevo esistesse.»

«E che cos’è il padel?.

«Una specie di tennis contro il muro che non è che mi attira molto, però sembra che abbia un gran successo, ma adesso non c’entra: se vuoi saperne di più te lo vai a cercare su internet. È facile, come è facilissimo andare su prenotauncampo: lui, il nipotastro, l’ha fatto in un niente davanti a me, e mi ha fatto vedere come funziona, anche se avrò bisogno di un ripasso. Succede che ti iscrivi e ti trovano lo spazio che ti serve più vicino possibile dove vuoi tu, si paga con la carta di credito e con un clic senza nessun tipo di percentuale sul costo iniziale, e qui mi domando sempre cosa ci guadagnano, ma un giorno lo capirò. E se usi ‘sta cosa, la loro app, con regolarità accumuli crediti e sconti anche fino alla metà del prezzo che ti costerebbe affittare sul posto. Ma adesso la pianto che sennò sembra che sono un loro agente di vendita e invece conosco solo l’abc. Anche perché ho invitato il Davide a prendere l’aperitivo con noi e fra un po’ ci raggiunge.»

«Ma viene anche lui qui, e si beve un Negroni? Non ci credo!»

«Ma va là! A parte che non è più un ragazzino, visto che ne ha compiuti ventitre, quello è salutista spinto e va di analcolico, al massimo si fa portare un cocktail di frutta, che solo a pensarci mi si intorcina lo stomaco. Ecco, telo là che arriva, guarda: sta attraversando la strada.»

«Però, che armadio, eh? E come passa il tempo: saranno anni che non lo incontro. Aspetta, aspetta… Ma tu guarda un po’ chi sta incrociando, proprio adesso vicino a lui… Oh, Gino, non ti dice niente quella signora con la gonna bianca? Non la riconosci?»

«Ma chi?»

«Quella… C’avrà più o meno la nostra età, non la vedo da allora, ma è sicuro che è lei.»

«Lei chi?», chiede ancora il Gino.

«Ma l’Antonella, no? Possibile che non la riconosci? Ha anche la gonna bianca, ti ho detto: e fai lavorare la fantasia!»

Stringe gli occhi il Gino, e poi conviene:

«Sì, hai ragione, è proprio lei, incredibile! Eh, gli anni passano per tutti, anche se direi che lei se li porta alla grande. Ma dai, come hai fatto a riconoscerla?»

«Le gambe, amico mio, ho guardato le gambe, prova: se punti su quelle e hai una memoria capace di riportarti indietro nel tempo, su un certo campo da tennis, stai sicuro che non puoi sbagliare. Nemmeno tu.»

«A proposito di…app: apperò!»

A questo punto si può anche sorridere, soprattutto se si fa parte della categoria maturi digitali. Un po’ più digitali, magari, da adesso in poi.