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Marco Pantani dieci anni dopo, come se fosse oggi

Dieci anni fa moriva Marco Pantani. Nell’occasione, scrissi per L’Europeo questo articolo, inserito all’ultimo momento in un mio servizio dedicato ai “Campioni maledetti”, nel numero del giornale che stava chiudendo. Non si conoscevano ancora le cause precise della sua morte, ma al di à di questo credo sia giusto rendere memoria a quell’uomo, tanto sfortunato quanto grande e – appunto, indubbiamente – maledetto. Soprattutto a posteriori, maledetto: quando è più facile sparare su un uomo morto. Buona lettura!

E’ terribile morire da soli quando si è amati da tantissima gente, ed è ancor più triste – proprio perché si è amati – se succede il giorno di San Valentino. In verità, morire a 34 anni è orribile in qualsiasi giorno dell’anno. Che poi accada a Marco Pantani ha anche dell’incredibile, pur se quasi annunciato.

Marco Pantani, il “Pirata”, l’uomo che aveva saputo dominare le montagne in sella ad una bicicletta come forse mai nessun altro se n’è andato il pomeriggio di qualche sabato fa, in una stanza anonima di un residence anonimo della riviera romagnola, a Rimini e a pochi chilometri da Cesenatico: così vicino alla sua città ma così lontano, ormai, da tutto un mondo che sentiva ostile e distante. Un mondo, soprattutto quello sportivo, che aveva cominciato ad idolatrarlo giusto dieci anni prima al Giro d’Italia, vincitore di tappa sul traguardo di Merano, e che impara presto a riconoscerlo anche in ogni sua mutazione: le orecchie a sventola, poi la pelata, la bandana, anche l’orecchino. Il suo terreno di gara privilegiato era quello delle frazioni più dure, dove si riesce quasi a toccare il cielo dalla cima di una montagna. Fra vittorie esaltanti e incidenti tremendi, arriva al suo anno migliore, il 1998. Vince Giro e Tour, una doppietta che riesce solo a pochissimi campioni, ‘eletti del pedale’ ai quali viene riservata dai cronisti la mitica frase: “Un uomo solo al comando”. Ma al comando ci resta poco perché un anno dopo, mentre sta dominando ancora trionfalmente il Giro, a Madonna di Campiglio viene fermato dopo un controllo del sangue: ematocrito troppo alto e corsa finita. Stop per due anni, poi prova a rimettersi in sella; ancora qualche vittoria, altri incidenti (anche non sportivi: guidando in contromano sfascia sette macchine, in evidente stato confusionale) e il rientro un po’ mesto nel ‘plotone’ delle seconde linee, per lui insopportabile. All’ultimo Giro d’Italia è ‘solo’ quattordicesimo, e invece di considerare la prestazione come possibile trampolino per un definitivo rilancio sprofonda nella depressione, anche perché al Tour non lo vogliono più.

Adesso si favoleggia sui suoi sbandamenti, si ricorda un suo brevissimo ricovero in una clinica per la cura di depressione e stupefacenti, si sottolinea anche l’incontro con Maradona a Cuba per studiare insieme una possibile terapia all’uso di droghe, ormai evidente anche dal fisico appesantito e irriconoscibile. Si parla di depressione connessa anche alla fine dell’amore con la fidanzata norvegese, di litigi anche violenti con la famiglia e di rottura totale con il mondo esterno.

Dei fiumi di parole scritte in questi giorni, delle frasi a lui attribuite, forse la più bella è quella riportata da Gianni Mura, un giornalista che lo conosceva bene. Alla domanda “Perché vai così forte in salita?”, il “Pirata” aveva risposto: “Per abbreviare la mia agonia”. Ora l’agonia per lui è finita davvero, e a noi resta solo il rimpianto di aver perso un grande campione che avevamo davvero tutti amato, capace di piantarci in asso per affrontare la sua ultima salita, proprio il giorno di San Valentino.