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Con Full Monty a Salerno per due giorni di (stra)ordinaria allegria, e non solo

All’atto della convocazione da parte degli amici della Full Monty di Busseto in vista dell’avventura calcistica di Salerno, pensavo che nel ritrovarmi sul campo – all’inizio o alla fine, o addirittura negli spogliatoi – dovessi a un certo punto pagar dazio per l’inaspettato (nonché ambitissimo riconoscimento) e sottopormi ad uno spogliarello filmico e corale, a ritmo di musica. Questo non è successo né è stato richiesto da niuno, ma sono sicuro che anche se fosse accaduto avremmo fatto tutt’insieme la nostra bella e porca figura, così come l’abbiamo senza dubbio fatta anche sul terreno di gioco adeguatamente (tra)vestiti e travisati da calciatori, e come tali assolutamente capaci di comportarci con più che onore, nell’atto delle tenzoni che hanno visto la “nostra” squadra contrapposta ad altre tre (o quattro? Mica si è ben capito, e non sto scherzando…), sia del posto che (una) in trasferta anch’essa, dalla capitale. Due pareggi e una sconfitta non sono poi così male alla fin fine, e il fatto che ben due gol li si sia beccati nell’unico scampolo di partita (giustappunto: persa) in cui ho avuto modo di esibirmi anch’io è dato da ascriversi senz’altro (!) solo al caso, tanto che nessuno me l’ha poi fatto notare e pesare. E non mi si dica che ciò è successo solo per dimostrazione di grande amicizia e indubbia sopportazione, eh? Gli è che comunque in quei 10 (scarsi) minuti di inutile mio caracollare sulla fascia destra resta certificato nella memoria di tutti che non ho avuto modo di toccare palla se non una volta a biglia ferma e nell’atto della rimessa in gioco nel cerchio di mezzo, dopo il secondo pallino beccato (un rigore del tutto inesistente, sul quale nessuno di noi ha però avuto niente da ridire e da ridere, accogliendo la decisione arbitrale come si conviene ad una compagine di alto lignaggio). Quindi nulla mi si potrebbe imputare, se non al limite – ma molto al limite – il fatto di non aver “chiuso” sugli avversari dalla mia parte in entrambe le occasioni nelle quali la nostra rete si è gonfiata a ciuffo, riempita dalla pedata avversaria. Ma, davvero mi si creda, non si poteva chiedere tanto a così imbolsito e raffermo giuocatore, e nemmeno che qualcuno degli altri amici miei bardati d’azzurro la palla me la scodellasse sui piedi, prima o poi; che sia successo per comprensione verso la mia possibile successiva figuraccia o perché ero tanto bravo da nascondermi agli avversari e anche ai compagni, non lo saprò mai. Ma tant’é, e nemmeno mi importa, anche perché smesso di parlar della mia prestazione (mi rifilo un sv, ma sarebbe un 4,5 e d’incoraggiamento) vorrei invece passare ad altro, di ben più serio e rimarchevole.

Dell’amicizia, per prima cosa, che non ha bisogno d’essere di lunga data né rinnovata ogni giorno per essere tale e grande. Dichiaro senza tema di smentita che mi sento amicissimo franco di tutti componenti l’allegra brigata che è calata unita fin quasi sulla costiera fra le più belle al mondo, e lo sarò per sempre anche se ci vedremo poche volte in un anno. Senza aspettare che ciò coincida con un’altra convocazione, chiamata d’ora in poi insperata e forse da evitare per il buon nome della squadra e anche per le mie caviglie, che comunque un po’ ne hanno risentito. Se dovessi cercar di rimembrare i momenti in cui quel sentimento antico ancorché raro fra tutti noi si è mostrato più forte e vero in quei due giorni avrei delle difficoltà, perché ho impressione che non sia mai venuto meno, in nessun attimo di quelle quasi 48 ore. E questo è splendido.

Poi la voce. Eh sì, aver avuto la possibilità di vivere come in un impianto radiofonico di rimando ogni volta che ci rimbombava nelle orecchie quella calda e suadente (più la sua risata, non da meno) di un must assoluto dell’fm come Roberto, ha dato a tutti l’impressione di trovarci in modalità di continua stereofonia, e in compagnia di una delle cadenze più belle e amichevoli (ecco che torna ancora, l’amicizia) dell’etere italiano. E scusate se è poco.

Ancora: l’allegria, tanta e sempre. Nello spogliatoio, in campo, a tavola (qui, se possibile, ancor di più), nei momenti di pausa e nei racconti di ognuno, fumando o disdegnando ma sopportando comunque quelle nuvole pestilenziali; addirittura toccando il personale (tanto), il politico (poco, ogni tanto ci sta), il comune e tutto il resto. Ché ognuno ne aveva da fare e dire, e ci si è sentiti a orecchie spalancate e occhi aperti parte della vita degli altri, e anche quando questi ultimi si chiudevano ma forse non volevano, ormai nel pieno della notte. Ho dato troppa fiducia alla mia memoria credendo di non avere problemi a ricordarmi tutte le scenette che ognuno ha messo in piazza, ma ho sbagliato: la prossima volta mi armo di carta e penna e me le scrivo, che ne vale la pena. Comunque, sono tante quelle che mi sono rimaste dentro e le tengo per me, come ognuno sono certo che così le conserva e ricorda, d’ora in poi: sono tesori nostri e non hanno bisogno di essere rinnovati, se non nel cuore e nella mente di ognuno di noi.

Non meno importante, anzi!: la solidarietà. Abbiamo avuto modo di verificarla come elemento fondamentale di questo spicchio di vita trascorso insieme in almeno due casi, che non è il caso di sciorinare in ogni loro attimo, ma chi sa capisce benissimo a cosa mi riferisco. Momenti di paura e di apprensione, quelli vissuti, poi finalmente di sollievo. Arrivato quello, si è tirato tutti il fiato per lo scampato pericolo e i fantasmi scacciati. Gli abbracci, anche quando non ci sono stati in maniera visibile, sono stati veri e forti nel nostro immaginario collettivo come se ci fondesse in un tutt’uno con chi ci aveva fatto tremare, e il fatto che poi tutto sia continuato come se niente fosse – e invece era stato tantissimo – è la dimostrazione più lampante di una invero rara capacità di metabolizzare e andare oltre, anche se i momenti di grande apprensione che abbiamo ancora tutti davanti a noi potevano minare la migliore riuscita dell’avventura. Ma non ci sono riusciti: tié!

Potrei continuare per un bel po’, ma diventerebbe retorica celebrativa e non è il caso, certo come sono che comunque avremo modo di tornare sull’argomento fra noi, così resterà ancora tutto circoscritto – e nello stesso tempo allargato a chi ci vuole bene – a uso e consumo di un gruppo fantastico. Voglio però chiudere con Gianfranco, che ce lo poteva pur dire di essere così bravo di testa. Fino a sabato scorso avevo sentito di bomber che schiacciano d’incornata come pochi, di altri che sono capaci di spaccare la rete raccogliendo al meglio cross dall’ala, ma mai di nessuno che riuscisse a rompere in una sola mossa un vetro antisfondamento di qualche centimetro di spessore. A saperlo prima, amico mio, ti si metteva al centro dell’attacco bello fermo (più o meno come me) e si aspettava solo il momento buono per la sua inzuccata, che sarebbe stata micidiale, come noi che l’abbiamo vissuta in diretta ben sappiamo. Si scherza e me lo si faccia passare, ma ho fatto melina finora per arrivare a una conclusione precisa, che vuole essere anche un’invocazione: che non ti venga in mente di non esserci anche tu, la prossima volta e tutte quelle che verranno che avremo la ventura di ritrovarci di nuovo per gite del genere. Non sarebbe mai più la stessa cosa, e nessuno di noi vorrebbe mai. Testata di rara potenza a parte, ça va sans dire