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Videla, quel signore “elegante”

Sono andato a cercarlo, l’articolo che scrissi nel 1978, sulla prima pagina del Quotidiano dei Lavoratori, e intitolato proprio così: “Videla, quel signore ‘elegante’”. L’ho trovato, quindi alla fin fine mi si è rivelata una bella abitudine quella di conservare le cose importanti del mio lavoro, soprattutto se all’inizio: avevo 23 anni, e lo tenni da parte (insieme ad altri) perché “uscire” in prima pagina era un onore mica da tutti, per un poco più che ragazzino. E noi, di una sinistra che ancora non ci esce dal cuore adesso, a fare bella figura ci tenevamo e ne eravamo orgogliosi, che poi insieme alla convinzione della militanza e alla certezza di una rivoluzione che sarebbe arrivata di lì a poco (ne eravamo convinti, assolutamente) erano le uniche soddisfazioni, o quasi, che ci potevamo permettere. Per esempio, non era per niente compresa quella di “farci dei soldi” con il nostro lavoro: con uno stipendio che era solo sulla carta non ci pensavamo nemmeno, e bastava avere quel poco necessario per andare a cena, magari da Rattazzo in corso di Porta Ticinese o alla Trattoria degli Artisti alle colonne di San Lorenzo, al massimo per una birra con i compagni (che termine desueto, eh?) dopo la chiusura delle pagine.

videla

Il pezzo uscì il martedì (la domenica non si lavorava, e quindi il lunedì non eravamo in edicola) dopo la finale fra Argentina e Olanda vinta dai padroni di casa, partita che si giocò il 25 giugno 1978, quindi era il 27 di quel mese. Gara finita 3 a 1 dopo i tempi supplementari: tutto da copione, visto che l’Argentina “doveva vincere”, e per far questo si era anche comperata il portiere del Perù qualche giorno prima, che di gol ne prese 6, spianando così ai biancocelesti la strada della finale. “Doveva vincere” l’Argentina, soprattutto perché quell’occasione “doveva essere” e rivelarsi una vetrina di perfetta pulizia per una nazione che stava già accumulando una serie impressionante di accuse – che faticavano però ad essere provate e a trovare eco mediatico – sulla sorte di migliaia di persone sparite in un attimo nel nulla, e che proprio in quelle settimane continuarono a sparire a ritmo sempre più elevato: mentre i giocatori della nazionale andavano verso la conquista (in gran parte) farlocca del trofeo, altre migliaia di loro coetanei conoscevano l’obbrobrio di torture che parevano senza fine, prima di finire scaricati in mare, per sempre (a tutt’oggi, ancora moltissimi) desaparecidos. Sì, la mattanza subì un’accelerazione proprio in concomitanza di quella Coppa del Mondo, e noi della “sinistra extraparlamentare” lo avevamo capito e scritto: arrivati primi un’altra volta nel gridare la verità e non creduti, invece avevamo ragione e non eravamo dei visionari. E’ successo tante volte, ma chi se lo ricorda quasi più, se non noi?

Nell’articolo – corredato da un tratto grafico che racchiudeva un pallone di calcio in un rotolo di filo spinato: Rocco, il nostro grafico, era bravissimo – un scrissi di quel bastardo impettito nella sua odiosa divisa che consegnava tutto felice la coppa al capitano Daniel Passarella, personaggio anche lui simbolo che, vista la sua vicinanza ideologica alla politica della giunta militare, forse era uno dei pochi al corrente di quanto stava succedendo, ma sono sicuro che non lo sapesse del tutto, altrimenti non si sarebbe potuto mostrare pazzo di gioia come invece si palesò in maniera incontenibile a favore delle telecamere di tutto il mondo. Scrissi anche che la maglia insanguinata di un altro calciatore, Tarantini, rappresentava un po’ il simbolo perfetto di quel Mondiale, e che di quel sangue a chiazze su quei colori (il bianco e l’azzurro) avremmo avuto modo di tornarci sopra, con il tempo, e alla fine il tempo (appunto) ci ha dato ragione. Succede spesso anche questo, ad anni di stanza, e quasi sempre puntualmente.

Mi ricordo anche che in occasione di un’altra finale della Coppa del Mondo di Calcio, qualche anno più tardi, stavolta fra Argentina e Germania (3 a 2, sempre per gli argentini) a Città del Messico, lo stesso giorno – era il 29 giugno 1986 – uscì sul manifesto una mia intervista a Diego Armando Maradona. Anche otto anni prima c’era anche lui in squadra, ma non si alzò mai dalla panchina: fenomeno lo era già, ma troppo giovane per essere “bruciato” al volo. Quel mondiale lo visse comunque in modo parecchio sentito, e mi assicurò che nessuno di loro calciatori poteva mai immaginare quello che succedeva nelle carceri, alcune distanti solo poche centinaia di metri dagli stadi dove si esibiva la sua nazionale: i sopravissuti alla mattanza diranno poi che le torture, spesso, si interrompevano giusto il tempo delle partite, e che se l’Argentina non vinceva (come successo contro l’Italia) succedeva che riprendevano con più vigore, ma anche al contrario se vinceva e il testosterone macho girava nel verso peggiore: i militari con inclinazioni golpiste sono fantastici anche nell’essere creativamente mostruosi, oltre che felloni eroici nei confronti di nemici che non possono reagire. Quel calciatore meraviglioso mi disse anche che se ne avesse mai saputo qualcosa gli avrebbe fatto schifo e sarebbe scappato dal ritiro, e che gli restava tutta la vita davanti per maledire Videla, Galtieri, Massera e tutto il resto della compagnia ributtante che ha contribuito a macchiare indelebilmente la storia di un popolo per altri versi assolutamente straordinario. Ancora, mi confidò che considerava un dovere il fatto che, smesso di fare il calciatore, avrebbe portato in giro per il mondo le sue denunce: come testimonial contro la junta di allora – era convinto – lui non sarebbe stato niente male. Per finire, era sicuro anche che avrebbe vinto pure quel campionato del mondo, e che non si sarebbe mai fermato nella voglia di vincere finché calcava un campo di calcio, che di soddisfazioni da togliersi ne aveva ancora tante. Non ci credevo né all’una né all’altra cosa, ma invece in qualche modo – a parte i guai contro i suoi altri fantasmi, del tutto chimici – entrambe le cose le ha fatte davvero, e di questo bisogna dargli atto.

Jorge Videla se n’è andato in questi giorni, magari troppo presto, ché un qualche anno ad imputridire ancora in galera non sarebbe stato male, ma almeno alla fine due ergastoli e 50 anni di carcere gli hanno fatto evitare l’impunità, oltre che tolto del tutto un onore sepolto da badilate di merda. I desaparecidos tutti non possono ancora riposare in pace né forse lo potranno mai, e le Madri della Piazza di maggio probabilmente non vivranno abbastanza per vedere disvelate tutte le verità che chiedono con forza almeno da più o meno quarant’anni, ma hanno fatto talmente tanto da doverne essere orgogliose, e se l’Argentina oggi è quella che è, lo si deve soprattutto a loro e alla loro stupefacente tenacia, proprio di donne e madri. La maglia di Tarantini resta insanguinata, e chiunque può andare a cercarla (con un po’ di pazienza e fortuna: è tutt’altro che facile, a così tanti anni di distanza) in rete per cogliere il senso di quel momento, in un’immagine che più significativa non si può. Per me resta ancora oggi il simbolo perfetto di quell’orrore, un ricordo e un monito terribile che sopravvive a tutto, anche a Videla, “quel signore elegante” che adesso finalmente marcisce sepolto sotto una terra che spero gli sia tutt’altro che lieve, soprattutto che sia insopportabile per la sua anima maledetta, sempre che un uomo simile ne abbia mai potuta avere una anche di quel genere.