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Piazza Pal de’ noantri

Mi ricordo (ah!, i “mi ricordo”: quanto dicono al solo scriverlo!) che quando ci si riuniva da ragazzini in cortile, le nostre grida garrule si libravano nell’aria soprattutto nei momenti in cui si giocava a “un-due-tre stella!”, a nascondino o nella tensione dello scambio di figurine o giornalini, pochi secondi – quelli – in cui ero costretto a stare parecchio allerta perché era in quegli attimi che l’Enrichetto, il Vanni o il Fabrizio tentavano di fregarmi (per dire: “fottermi” era termine che non sapevo nemmeno lontanamente a cosa si potesse riferire, allora), e spesso ci riuscivano anche.

Ora, nella piazzetta sottostante casa mia – un bellissimo spazio, dove troneggia una fontana dell’800 che butta acqua limpidissima e fresca, giorno e notte – le alzate festose dei pari-età attuali risuonano alte, e immancabilmente del tipo: “Vattelo a pija ner culooooo!” (il più gettonato, in assoluto), “A stronziiii!”, “Fijo de ‘na mignotta, mò te meno!”. Tutti mantra parecchio sobri e scanditi per ogni occasione, e le preferite sono: mentre è in corso un sano e allegro scambio di calci e pugni, quando si deve con pacatezza sottolineare una differente opinione, oppure se qualche intruso – anch’esso timido adolescente – osa fare irruzione in uno spazio considerato di proprietà, manco si fosse in una via (piazza, nel caso) Pal de no’ antri. E come questi  baldanzosi guerrieri – autoctoni e non – possano aver talvolta “segnato” il “loro” terreno in modalità fisica e liquida, non sto a descriverlo nel particolare.

E’ gioioso assai tutto questo, anche perché inframmezzato dal suono del campanile a fianco che martella ogni quarto d’ora inesorabilmente lo scandire di un tempo trascorso in azioni così positivamente rimarchevoli ed educate, almeno finché qualche genitore viene a interrompere l’innocente sarabanda per riprendere i pargoli in occasione della cena. Momento di convivio familiare – peraltro – che non dev’essere considerato granché in termini di apprendimento appunto educativo, soprattutto se paragonato invece proprio a quello di gruppo e all’aperto che si tiene sotto i miei occhi: il desco serale dei baldi ragazzotti (e anche ragazzotte, certo, per non farci mancare niente) dura giusto un quarto d’ora e poi – per fortuna, soprattutto nostra, di spettatori non paganti – tutto ricomincia, e via di nuovo con l’imperdibile recita a soggetto connotata da costante impegno vernacolare e fisico. Questo finché la stanchezza la vince, con gambe e lingua del tutto esauste che vanno giocoforza ricaricate: è (solo) così che arriva a bussare la voglia del meritato riposo in quei teneri virgulti, e ben venga, ché domani si possa ricominciare daccapo.

Si sappia comunque che Olga non smette mai di cantare nel frattempo, qualsiasi cosa (sotto e anche sopra) succeda: intonazioni perfette le sue, che sanno anche riportarmi alla realtà quando si deve, affinché io possa alfine distaccarmi dalla comoda postazione d’osservazione (in genere, nel mentre che mi allesso una svapora stando comodamente disteso sulla mia chaisse-longue Ikea di plastica) e da quel mondo straordinario che vibra e pulsa appena sotto: fatto di ormoni imberbi che cominciano confusamente a girare, ma anche di creatività orale e giovanile di eccellente fattura. A questi quadretti simpatici di vita mi sa che dedicherò qualche pensiero periodico, alternati a quelli che sa regalarmi proprio Olga, la mia splendida suocera, e che già ben conoscono in tanti: non sia mai che posso farvi perdere qualcosa del vivere appassionato e consapevole che mi circonda, amici miei.